LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE SCOPRI L'INGANNO DELL'ALTRO"
creata il 9 marzo 2008 aggiornata il 21 settembre 2012

 

 

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Sei in "Lacan falso maestro"

"Per bravo che sia il maestro, arriva un momento in cui l’allievo è completamente solo di fronte al problema matematico; se egli non determina il proprio spirito a cogliere le relazioni, se non trae da se stesso le congetture e gli schemi che, proprio come una griglia, si applicano alla figura considerata e ne mettono in luce le strutture principali, se infine non provoca un’illuminazione decisiva, le parole restano dei segni morti e tutto viene imparato a memoria". J.P. Sartre, La libertà cartesiana, 1946

Le but de mon enseignement a étè, et reste, de former des analystes. J. Lacan, 10 giugno 1964 (introducendo la nozione di "soggetto supposto sapere")

"Sans même le savoir, j’ai appris alors dans la solitude ce qui fait l’essentiel du métier de mathématicien – ce qu’aucun maître ne peut véritablement enseigner. Sans avoir eu jamais à me le dire, sans avoir eu a rencontrer quelqu’un avec qui partager ma soif de comprendre, je savais pourtant, – par “mes tripes” je dirais, que j’étais un mathématicien: quelqu’un qui “fait” des maths, au plein sens du terme – comme on “fait” l’amour. […] Pour le dire autrement: j’ai appris, en ces années cruciales, à être seul. J’entends par là: aborder par mes propres lumières les choses que je veux connaître, plutôt que de me fier aux idées et aux consensus, exprimés ou tacites, qui me viendraient d’un groupe plus ou moins étendu dont je me sentirais un membre, ou qui pour toute autre raison serait investi pour moi d’autorité." Alexander Grothendieck, Récoltes et semailles.

In questa pagina mi assumo il compito delicato di dimostrare la falsità dell'insegnamento lacaniano senza rievocare la figura di Lacan stesso e senza neppure fare riferimento a particolari contenuti del suo insegnamento, per i quali rimando alla pagina su un logocentrismo particolare. Insomma, non intendo tenere un discorso ad personam contro Lacan e le sue discutibili tesi, ma un discorso strutturale sulla posizione mantenuta da Lacan per quasi 25 anni, gli anni del seminario. Non voglio contribuire al libro nero della psicanalisi, ma iniziare a scrivere un libro bianco di denunzia della generale carenza di scientificità della psicanalisi corrente, magari giustificata in nome della formazione.

Un dato statistico per cominciare. Nelle quasi 900 pagine degli Ecrits l'espressione mes élèves ricorre 6 volte, ovviamente concentrate nella seconda metà del volume, quando la fama di maître à penser di Jacques Lacan si andava consolidando. Tante o poche? Non saprei. Comunque è un dato omogeneo rispetto ai riscontri sul venticinquennale seminario. Cito a caso: 4 volte nel seminario XVII (1969, 221 pagine) e 2 volte nel seminario XX (1972, 135 pagine). Ma non è stato sempre così. Curiosamente e in modo poco giustificabile in base alla variabilità statistica, l'espressione non compare nel seminario VII (1959) sull'etica, dove Lacan espone la massima della propria etica solipsistica:

Non cedere sul desiderio.

Statistiche a parte, il significante del sintomo - mes élèves - dice la verità attraverso il falso. Lacan occupava veramente la posizione di falso maestro.

Da chi aveva ricevuto l'ispirazione?

Qui una congettura vale l'altra. In carenza di testimonianze dirette sono tutte equiammissibili. Quella che adotto in questa sede è una delle più generiche. In Europa qualunque falso maestro di una certa consistenza intellettuale non può non aver subito il fascino del falso maestro per eccellenza: Hegel. Se poi il fascino diretto è rinforzato da quello indiretto del magistrale (anche un po' servile) commentatore, che teneva applauditi seminari nella Parigi degli anni Trenta sulla dialettica Servo/Padrone - intendo Alexandre Kojève - il gioco è fatto. Nel 1948 Lacan aveva appreso tutto e bene sulla falsa maestria, come dimostra il suo saggio sulla Aggressività in psicanalisi. Cito le poche righe che lo riguardano:

Avant lui pourtant, un Hegel avait donne la théorie pour toujours de la fonction propre de l'agressivité dans l'ontologie humaine, semblant prophétiser là loi de fer de notre temps. C'est du conflit du Maître et de l'Esclave qu'il déduit tout le progrès subjectif et objectif de notre histoire, faisant surgir de ces crises les synthèses que représentent les formes les plus élevées du statut de la personne en Occident, du stoïcien au chrétien et jusqu’au citoyen futur de l’état Universel.
Ici l'individu naturel est tenu pour néant, puisque le sujet humain l'est en effet devant le Maître absolu qui lui est donné dans la mort. La satisfaction du désir humain n'est possible que médiatisée par le désir et le travail de l'autre. Si dans le conflit du Maître et de l'Esclave, c'est la reconnaissance de l'homme par l'homme qui est en jeu, c'est aussi sur une négation radicale des valeurs naturelles qu'elle est promue, soit qu'elle s'exprime dans la tyrannie stérile du maître ou dans celle féconde du travail.

On sait l'armature qu'a donnée cette doctrine profonde au spartacisme constructif de l'esclave recréé par la barbarie du siècle darwinien (Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 121).

In proposito devo anche citare l'unica testimonianza autobiografica di cui disponiamo, una nota al penultimo scritto di Lacan, L'Etourdit. (Uno scritto del 1972, chiaramente disgrafico, di cui a chi me lo chiedesse posso dare una traduzione italiana, dove indulgo anch'io alla passione logocentrica del commento).

"Kojève, che considero mio maestro per avermi iniziato a Hegel, nutriva la stessa parzialità nei confronti della matematica, ma va detto che erano i tempi di Russell e filosofava a titolo di discorso universitario, al cui interno si era schierato par provision [un termine cartesiano!], ben sapendo che il suo sapere funzionava da sembiante e come tale lo trattava. L’ha dimostrato in tutti i modi, abbandonando le sue note a chi poteva trarne profitto e postumando [sic] la propria derisione per tutta l’avventura. Il suo disprezzo si sosteneva sul proprio discorso iniziale, che fu anche quello cui fece ritorno: il grand commis sa trattare i buffoni come gli altri per quel che sono: soggetti al sovrano". ("Scilicet" 4, Seuil, Paris 1973, p. 9.)

La citazione contiene il termine chiave - semblant, sembiante - che ci consente di transitare dal contesto ontologico, in cui il filosofo formula originariamente la vicenda romanzesca del Servo e del Padrone (Maître, che in francese è ambiguo, significando anche Maestro), al più pertinente contesto epistemologico, dove si può trattare la questione del "falso maestro".

Il falso maestro assume le sembianze magistrali per contrabbandare un finto sapere e attraverso di esso una falsa verità. Il desiderio, su cui il falso maestro non cede, è il desiderio di ingannare l'allievo.

Nel caso di Hegel il finto sapere è la Fenomenologia dello spirito, che Hegel mette in commercio come vera scienza e vende agli accademici boccaloni. Ne parlo alla pagina

Hegel falso maestro.

Nel caso di Lacan il finto sapere è la dottrina del ritorno a Freud. Non faccio qui un discorso generico, sostenendo - come non è difficile - che ogni dottrina non è scienza, in quanto dogmatismo non verificabile né falsificabile. Faccio un discorso particolare, strettamente connesso alla fattispecie "Freud". Il sapere messo in circolazione da Lacan non solo è finto, ma è anche sbagliato - o "neanche sbagliato", come diceva Wolfgang Pauli - perché il tanto decantato ritorno a Freud non torna alla scientificità di Freud. Non sa neppure come trattarla, essendo non solo latente, ma anche estremamente delicata da estrarre dalla miniera freudiana, quasi fosse un metallo prezioso che subito decade appena si espone all'aria aperta.

(Qui devo resistere alla tentazione di scadere nella polemica del discorso ad personam. A mio personale parere, che non pretendo sia condiviso, tanto il ritorno a Freud quanto l'uso improprio della topologia e della linguistica sono stati trucchi retorici dell'affabulatore Lacan per veicolare la propria particolare dottrina entro nobili contenitori, ingannando gli allievi. Di Freud, della topologia, della linguistica, della scienza in generale, al vecchio psichiatra, di formazione fenomenologica, interessava poco o nulla.)

Dico di più. Il successo sbalorditivo del lacanismo in Francia e fuori, soprattutto nei paesi latini di forte tradizione umanistica, non è né frutto del caso né dovuto alla particolare ed elevata capacità di comunicare del maestro.

Il successo del lacanismo è intimamente legato al proprio essere non scientifico.

Per vocazione la cultura idealistica e postidealistica, che forma la base del buon senso che ci governa, resiste alla scienza. Questo, tutti i guru - da Gustav Jung a Ron Hubbard - lo sanno bene e lo sfruttano al meglio per fare proseliti e quattrini. Per l'idealismo di maniera (di destra o di sinistra) la scienza - chiamata spregiativamente "tecnoscienza" - è roba meccanica, degna dei tecnici, asserviti al capitalismo. Alla suddetta cultura idealistica non par vero che qualcuno si prenda la briga di cancellare le pur deboli tracce di scientificità (intendo di meccanicismo) nel discorso freudiano, per confezionare una psicanalisi "umanistica", affatto logocentrica, basata sul primato del significante: una dottrina analitica che non sia scienza, finalmente! Impresa non difficile, per altro, di cui esistono paradigmatici antecedenti. Infatti, la "descientifizzazione" è stata già tentata e in gran parte realizzata con successo dalla fenomenologia hegeliana contro la matematica, dalla fenomenologia husserliana contro la scienza positivista e dall'ontologia heideggeriana contro la cibernetica, presa a modello della scienza moderna (sic!). Esiste una parola d'ordine. “La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente […] è anzitutto la sconfessione [désaveu] della scienza”. (Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 16). La fenomenologia lacaniana procede un passo più in là sul sentiero dell'analfabetismo scientifico (Lacan ammirava Merleau-Ponty) e ingrossa ulteriormente la schiera dei progetti anticartesiani. Con il beneplacito del potere vigente, che non vede di buon occhio atteggiamenti di pensiero basati sul dubbio e sulla libertà di pensare, e con l'accondiscendenza del buon senso, che si premura di far rientrare nei ranghi dell'umanesimo l'improbabile scienza dell'anima. (L'argomento è trito e... condivisibile. L'anima non è un fattore calcolabile, quindi la psicologia non è una scienza).

Ma torniamo al nostro argomento: la dialettica dell'inganno. All'interno dell'idealismo (hegeliano) il desiderio del maestro di ingannare combacia perfettamente con il desiderio degli allievi di essere ingannati. Così nascono le scuole e le sette psicanalitiche. L'aria che vi si respira è di ostinata e ottusa resistenza alla scienza. A sua volta, la resistenza alla scienza, cioè all'unica possibilità di scoprire la menzogna, rinsalda l'inganno reciproco.

Ma e sempre così? Non c'è scampo al doppio legame dell'inganno reciproco? Dei mille che frequentavano i seminari di Lacan ai tempi d'oro, tutti volevano autoingannarsi? Volevano tutti permanere in una dottrina falsa ma non falsificabile? Ammettiamo che fossero solo 999. Ce ne sarà stato almeno uno che resisteva alla seduzione dell'inganno? La congettura è molto probabile sul piano psicanalitico, cioè sul piano terra terra della clinica psicanalitica.

Per essere più chiaro la prendo larga. In questo sito ho fatto pochissimi riferimenti al setting freudiano e alla clinica psicanalitica. Non è un caso. Non è neppure un'abdicazione alla funzione dello psicanalista. Esprime il mio personale scetticismo sulla possibilità che l'impostazione psicoterapeutica, data da Freud alla psicanalisi, sia la via regia per la psicanalisi. Non sto dicendo che per diventare psicanalisti non occorra fare un'analisi personale. Sto dicendo che, probabilmente, non esiste la via regia che conduca automaticamente alla psicanalisi o, più concretamente, allo psicanalista. Se la psicanalisi è una scienza, infatti, non esiste il metodo che garantisca di farla bene. La psicanalisi personale può funzionare come può non funzionare. Forse può funzionare per avviare un percorso psicanalitico. Difficilmente per portarlo a felice conclusione. Dipende dalle circostanze? Non solo.

Nel setting freudiano esiste un punto cieco, uno scotoma fisiologico, che è strutturalmente difficile da aggirare. Il setting freudiano, infatti, è esposto al rischio del reciproco inganno tra analista e analizzante, un inganno che né il primo né il secondo possono facilmente parare. Consideriamo i due casi in esemplificazioni molto comuni, addirittura banali.

Primo caso: l'analista inganna l'analizzante. Il caso più famoso è quello della bella macellaia. Freud espone all'isterica la propria teoria sul sogno. L'isterica, più per deformazione "professionale" che per reale convinzione, contesta il maestro e confeziona un sogno di controdesiderio. Il maestro, che in questo caso si ricorda di essere stato in gioventù uomo di scienza, si dimostra apparentemente disposto ad accettare la correzione alla teoria... per mantenerla uguale a se stessa. (La correzione, tuttavia, nel tempo andrà lontano, fino a superare il dogma del principio di piacere, con grave scandalo dei veramente ingannati, cioè degli allievi) .

Secondo caso: l'analizzante inganna l'analista. E' il caso molto comune dell'analizzante che interrompe momentaneamente la psicanalisi per un viaggio, ma la riprenderà - dice - al ritorno. Di fatto non ci sarà alcuna ripresa. L'inganno "normale" dell'analizzante è la richiesta di cura, come copertura di altre meno nobili intenzioni: dall'esercizio dell'amore alla realizzazione dell'odio, per non parlare dei romanzetti inverosimili che tanti nevrotici amano raccontare al proprio analista. Ma l'analista non ne vuol sapere. Come servo dell'isteria, il buon analista non vuole essere ingannato.

L'analista "resiste" all'inganno dell'altro, magari - è la mia strategia preferita - lasciandosi ingannare. Tanto il tempo è galantuomo, come si dice in italiano, e alla fine l'inganno si smonta da solo. (Una ragione in più per adottare la logica epistemica, che è essenzialmente una logica temporale). Tanto tempo fa scrissi il mio primo saggio in tedesco proprio sull'argomento. "Hören sollt ihr, hören, aber nicht verstehen", come ammoniva Gesù, che di autoinganni farisaici se ne intendeva. In fondo, l'ipocrisia non inganna l'altro, ma se stessa. (La versione italiana si trova a "Hanno orecchi ma non intendono").

L'analisi, impostata psicoterapeuticamente, è indifesa rispetto agli inganni del sapere, perché la cura è un inganno "essenziale" - come diresti tu, caro Heidegger. Di fatto, quando si presentano gli inganni della cura o dell'appartenenza, l'analisi fallisce - direi - automaticamente. Un esempio paradigmatico: quando l'analizzante "finisce" l'analisi ed entra nella scuola del proprio analista, vuol dire una cosa sola: non c'è stata analisi. C'è stato un maestro che ha ingannato - indottrinato - l'allievo.

Freud ebbe un vago sentore di queste possibilità epistemiche negative. Parlava di resistenze all'analisi. Esistono, certo, le resistenze all'analisi, ma non sono solo resistenze dell'analizzante. Sono resistenze formidabili, che traggono la loro forza dal soggetto collettivo prima che dall'individuale. Sono anche resistenze dell'analista, come segnalava Lacan, che di questi trucchi se ne intendeva. Su entrambi i fronti, individuale e collettivo, le resistenze all'analisi sono un caso particolare di resistenza alla scienza. Grazie a loro la psicanalisi decade a pratica psicoterapica - non scientifica - di adeguamento alla realtà. Il potere, naturalmente, asseconda questo decadimento, non tanto perché tema la sovversione soggettiva, dovuta all'inconscio, ma perché teme la scienza che sa di non poter addomesticare: la scienza cartesiana.

Che fare?

Posso dire cosa non fare. Non si tratta di correggere posizioni personali sbagliate nei confronti della psicanalisi né di attivare polemiche contro questa o contro quella scuola di psicanalisi, contro questa o contro quella pratica psicoterapeutica. Sarebbe un buco nell'acqua. Il lavoro da fare è a monte, come dicevamo nel Sessantotto. Si tratta di studiare un assetto nuovo della psicanalisi che regga di fronte a possibilità epistemiche impreviste e finora poco prese in considerazione. Il mio tentativo di concepire la psicanalisi come una scienza dell'ignoranza, in particolare come scienza della volontà di ignoranza o dell'autoinganno, va in questa direzione. Intendo dire che, se la psicanalisi è una scienza, non ha bisogno di maestri. La scienza non viene imposta dall'alto, attraverso il principio di autorità. La scienza cresce dal basso per falsificazioni (Popper) ed estensioni (Kuhn). Il lavoro scientifico non è frutto dell'Uno magistrale, ma del collettivo scientifico, che non è un gruppo monocentrico, ma una dispersione policentrica di saperi, organizzata in un reticolo di legami epistemici.

"Nessuno si faccia chiamare vostro Maestro" (Mt. 23,8) predicava Gesù in Palestina. Questa è anche l'unica verità che si predica in questo sito, ma a partire dall'argomento cartesiano del dio ingannatore. Chiunque occupi abusivamente in ambito scientifico la posizione dell'Uno Magistrale, colui diventa automaticamente ingannatore. Altro che fuorclusione della verità, come predicano i lacaniani. Cartesio fuorclude il maestro, ma non certo in modo tassativo. Vulgus vult decipi. Il volgo vuole essere ingannato. I falsi maestri ci saranno sempre. Li vuole il popolo furibondo e, come si sa, vox populi, vox Dei. Lì - nell'oggetto "voce" - la psicologia individuale si salda alla collettiva e l'inganno singolare diventa plurale. Chiamalo, se vuoi, fascismo, nei casi gravi. Nei casi meno gravi, va bene berlusconismo.

Val la pena segnalare un corollario di questo discorso. Se la psicanalisi è una scienza, non ha maestri. Se non ha maestri, non è filosofia. Storicamente la filosofia è il discorso del maestro, da Parmenide - diciamo - su su fino ad Heidegger, alcuni si spingono temerariamente fino a Severino. Lo riconosce persino il maestro che qui sto mettendo in discussione, Lacan. "Il filosofo si inscrive, nel senso in cui si dice di una circonferenza, nel discorso del padrone [maître], dove svolge il ruolo del buffone. Ciò non vuol dire che sia uno sciocco. Anzi, è più che utilizzabile. Leggete Shakespeare." (L'Etourdit, cit., p. 9). Ma - aggiungo - leggete anche le Opinioni di un clown di Heinrich Böll.

Tutto ciò premesso, non me la sento di dire: "Chi mi ama mi segua". Anche perché so - dopo Freud - che generalmente sopra ogni cosa si ama la propria ignoranza. "Amano il loro delirio come se stessi. Questo è il segreto", diceva Freud dei paranoici, nella Minuta H a Fliess. Della serie, nell'autoinganno si vive bene. Anzi, si vive meglio, se l'inganno è collettivo – il delirio allora si chiama religione, che è oggi in generale il più collaudato meccanismo di difesa contro la scienza. E meccanismo assai affidabile. Infatti, la religione, seppur falsa, non si può mai falsificare. Una volta che sei preso dalla sua falsità non ne puoi uscire. Puoi solo diventare eretico.

Scivolata finale nel "patetico" personale. Il dottor Sciacchitano è orgoglioso di poter affermare che non è un maestro. Intorno a lui non esistono "gruppi" di autoinganno - i cosiddetti gruppi di formazione - parola da ostracizzare! - di cui sarebbe il leader. E pensare che avrebbe le doti adatte per funzionare da guru! Lo sanno bene molti dei suoi analizzanti, che gli hanno insistentemente richiesto di assumere la posizione magistrale all'insegna dell'autoinganno eterodiretto. (Esiste anche questa possibilità!). Ma, finché il dottor Sciacchitano "resisterà" al canto delle sirene dottrinarie, vuol dire che il suo discorso è coerente, cioè

scientifico.

Il mio discorso è tanto coerente e scientifico, che mi posso permettere di porre la questione: cosa ce ne facciamo del falso maestro Lacan?

Scientificamente parlando, rivelato l'inganno del falso ammaestramento, sostengo che molto va conservato del lacanismo. E' bene infatti che impariamo da Lacan a non tenere sull'esperienza psicanalitica un discorso antropomorfo. Va tenuto alla larga dal discorso analitico sia l'antropomorfismo freudiano, materiato di conflitti tra province psichiche, sia l'antropomorfismo junghiano, intessuto di miti e altre favole. Certo, è difficile non cadere nell'antropomorfismo, senza ricadere, dall'altra parte, nella filosofia, o peggio, nel logocentrismo. La strada è stretta. E' scientifica. Forse Lacan - malgré soi - può aiutarci a imboccarla.

Aggiungo per completezza che sulla strada che porta lontano dall'antropomorfismo Lacan è andato lontano, forse troppo lontano. Faccio un esempio. Le sue formule della sessuazione, che attribuiscono all'uomo una sessualità definita dall'eccezione dell'Uno non castrato e alla donna una sessualità senza eccezioni (quindi non riconducibile al concetto), hanno il merito di aver riformulato il mito di Edipo su base puramente logica. Ma hanno anche un grave difetto. Sono tanto astratte che non menzionano il corpo. Vuol forse parlare del sesso degli angeli? No, sono le buffe conseguenze del suo particolare logocentrismo.

C'è un particolare curioso da segnalare. Lacan la fa finita con i conflitti psichici. Il termine conflit segnala per lui solo un momento delle peripezie del soggetto: il momento simbolico di attraversamento delle fissazioni immaginarie, tanto nel conflitto edipico che in quello servo/signore. Ma quale funzione sostituisce Lacan a quella freudiana di conflitto? Proprio la funzione di autoinganno dell'Io, a partire dall'alienazione speculare nell'immagine dell'altro, che fonda tutte le false pretese dell'Io. Non male per un falso maestro. Dovremmo ringraziarlo per il suo falso insegnamento, che a volte è giusto.

Segnalo agli storici della filosofia la possibilità di ricondurre la dialettica degli inganni (auto ed etero) alla dialettica hegeliana servo/padrone. Al di là delle molte differenze (secondarie), c'è un tratto fondamentale, comune alle due dialettiche: il padrone, tanto quanto il maestro, non ha rapporto con l'oggetto. L'oggetto è abbandonato dal padrone nelle mani del servo, dal maestro nelle mani dell'allievo.

Nel caso di Lacan è evidente. Lacan non aveva alcun rapporto diretto con la psicanalisi (sic!). La psicanalisi era faccenda degli allievi che dovevano imparare come gestirla, seguendo i seminari del maestro. Per riprendersi la "cosa psicanalitica" Lacan inventò la "passe", rito di passaggio da analizzante ad analista, dove l'analizzante doveva restituire al maestro la cosa da lui appresa. Non funzionò, ovviamente.

Avendo avuto, unico tra gli italiani, esperienza di "passe" all'Ecole freudienne de Paris, ormai trent'anni fa, posso dire come sono andate le cose. Naturalmente non lo dirò in termini personali, che sono secondari, ma strutturali.

La dialettica servo/padrone, come la dialettica maestro/allievo, è roba vecchia. Precisamente prescientifica. Il padrone non ha rapporto con la cosa. Gode della cosa prodotta dal servo. Il maestro non ha rapporto con il sapere. Gode del sapere prodotto dall'allievo. Nel nostro caso il maestro Lacan godeva del sapere prodotto dall'analizzante e del proprio godimento riempiva i Seminari.

Ma in epoca scientifica emergono due nuove figure: ci sono un nuovo padrone e un nuovo maestro, che si riprendono il rapporto con l'oggetto. Sono l'imprenditore in campo economico e il ricercatore scientifico in campo epistemico. Del primo non capì nulla il migliore allievo di Hegel, Marx, forse perchè parteggiava per i servi. Del secondo non si accorse il miglior allievo di Freud, Lacan, che cercava allievi, non ricercatori. Anche il ricercatore è un imprenditore. E' l'imprenditore del sapere, che si butta, a rischio di fallire, nell'impresa epistemica, finalizzata alla conquista delle cose epistemiche, come le chiama Hans-Jörg Rheinberger. Un rischio sconosciuto a tutte le dottrine magistrali e non previsto dagli allievi che ad esse si conformano e le praticano.

Forse, per cominciare a superare le ideologie che hanno afflitto il XX secolo, sia in campo economico sia in campo epistemico, conviene prendere sul serio le deboli pretese del soggetto della scienza, che riconosce un solo maestro, anche di democrazia:

il dubbio.

Il dubbio - si può dire parafrasando Lacan - è un sentimento che non inganna.

Ma, concretamente, qual è il danno prodotto da un falso maestro?

Lo scetticismo sterile e l'immobilismo.

Non si tratta di un danno immediato, ma sul lungo periodo. Non è un danno estemporaneo, ma duraturo. Mi spiego.
Il vero danno prodotto dal falso maestro non è l’insegnamento del falso in sé. Il falso, ci pensa il tempo, che è galantuomo, a metterlo fuori causa, ma facendolo funzionare prima come causa del vero. In questo sito vado sostenendo che esiste un valore epistemico del falso, come premessa del vero. Il vero danno del falso maestro è la chiusura epistemica, che la falsa dottrina impone in un primo momento per automantenersi, ma che permane anche quando la dottrina in quanto tale è stata abbandonata. Il risultato finale è che chi si è abbeverato alla fonte del falso maestro, non potrà più bere l’acqua della verità, perché ne ha perso il gusto. Lo si è visto in questi anni di caduta delle ideologie. I vecchi ideologi non sono più ideologizzati, ma resistono all’acquisizione del nuovo. Sono rimasti incapsulati nel guscio vuoto dell'ideologia, che non contiene più la vecchia ideologia, ma resta impermeabile a nuove idee. Insomma, i falsi maestri sono pericolosi meno per le falsità che insegnano nell’immediato e più per la sterilizzazione a lunga scadenza del processo di acquisizione delle verità. Dalla sterilizzazione del processo che genera verità - il processo che genera e confuta congetture - all'immobilismo epistemico il passo è breve. Lo dimostra l'immobilismo del movimento psicanalitico, sclerotizzato nelle grandi istituzioni che controllano il mercato dei potenziali pazienti, oggi ridotto ai potenziali psicanalisti. (L'immobilismo si perfeziona nell'assoluta autoreferenzialità).
A ciò si aggiunga che il falso maestro fa presa sui giovani, ancora epistemicamente malleabili. Quando si accorgono dell’inganno, è troppo tardi. I giovani non sono più né giovani né malleabili. Hanno, magari, lasciato decadere le vecchie falsità, ma non sono più disponibili a nuove verità. Sono diventati scettici. Ma il loro scetticismo non è quello fecondo di Cartesio, bensì quello sterile di Pirrone.

Queste considerazioni non sono accademiche e non provengono dalla storia della filosofia. Certo, Pirrone era figlio del decadimento dell’idealismo platonico e non era più disponibile ad altri inganni idealistici. Questo è un fatto storico. Ma le mie considerazioni derivano dall’esperienza recente, assai limitata ma significativa, benché non ancora ben storiografata, del movimento lacaniano italiano. Abbiamo avuto falsi maestri, poco male. Il danno immediato è stato dei singoli che ci hanno creduto. Il male successivo - più collettivo che individuale - è che i loro allievi, scottati dall’inganno, si sono chiusi a ogni ulteriore forma di verità. Con una conseguenza rimarchevole ascrivibile a questo immobilismo: da psicanalisti che erano in potenza, sono diventati psicoterapeuti in atto. Lo dico per portare acqua al mio mulino. In quanto sul lungo periodo producono immobilismo e conservazione, i falsi maestri sono funzionali al potere. Perpetuano e convalidano l'inganno su cui il potere si regge - per esempio, l'inganno che il maestro o il padrone opererebbero per il tuo bene o per il bene comune.

Agli analisti mi permetto di ricordare un piccolo particolare freudiano, sottovalutato perfino da Freud.

Al soggetto il vero insegnamento lo dà l’inconscio. Per l'analista la vera maestra è la rimozione originaria. “Nessuno di voi si faccia chiamare maestro”, diceva Gesù (Mt. 23,8). La formazione è in analisi sempre una formazione dell'inconscio. Perché è opportuno, allora, che in analisi non ci siano maestri? Perché il maestro – regolarmente falso – salta a piedi uniti dentro alla rimozione primaria e le tappa la bocca, impedendole che ti insegni qualcosa di nuovo. Il buon maestro, invece, insegna ad ascoltare la voce dell’inconscio, che parla – ma sottovoce – attraverso la rimozione primaria.

A questa considerazione teorica aggiungo un dettaglio che proviene dalla mia esperienza. Gli analizzanti che si autorizzano come analisti chiedono spesso al proprio analista di fare da maestro. Gli chiedono di tenere seminari o di partecipare alle sue conferenze. Non sopportano di lavorare scientificamente con la propria ignoranza. Non tollerano l'incertezza, che vorrebbero cancellare attraverso l'insegnamento dogmatico. Pretendono che qualcuno dica loro come si lavora in clinica. E' il segno che in analisi qualcosa non ha funzionato. Non hanno imparato dalla propria clinica come si opera attraverso il proprio inconscio. La richiesta di dottrina è un prolungamento patologico del transfert sotto forma di soggetto supposto sapere. Le scuole di psicanalisi pullulano sfruttando la richiesta di dottrina. Ultimamente, le scuole di psicanalisi crescono sul malfunzionamento dell'analisi e... lo mantengono a proprio vantaggio.

In conclusione, senza paura di contraddirmi, rimando alla pagina

Lacan vero maestro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAPERE IN ESSERE

SAPERE IN DIVENIRE

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